POLITICA ANTIRAZZISTA


Quattro proposte per allacciare concretamente un legame con le diverse comunità di immigrati

Simone Oggionni Liberazione 14 luglio 2009

In molti hanno scritto in questi giorni a proposito del “pacchetto sicurezza” approvato dal Senato giovedì scorso. Le parole più forti e incisive le ha pronunciate padre Zanotelli, il quale ha dichiarato di «vergognarsi di essere italiano e di essere cristiano». E’ davvero difficile non vergognarsi di questo Paese senza memoria che sprofonda nelle paludi di una legislazione apertamente razzista. Ciò che più disarma e impaurisce è che essa registra il sentire comune, approva per via parlamentare (per la via di un Parlamento sempre più utilizzato come strumento di affermazione del potere privato del presidente del Consiglio) ciò che nella società è verità acquisita già da tempo: il migrante irregolare è, in quanto tale, criminale. Questa è la ratio profonda della legge. Cambia, rispetto al biennio 1937-38 (all’infamia delle leggi vessatorie nei confronti dei neri delle colonie e antisemite), il soggetto passivo della discriminazione, ma non la logica persecutoria e – essa sì – criminale. Come corollari di questa presunta e sconvolgente “verità”, il Senato ha approvato una serie di norme che rendono semplicemente aberrante la legge. Ne citiamo due, le più crudeli: il divieto dei matrimoni misti, e cioè la negazione del diritto di contrarre matrimonio senza vincoli di etnia o di religione (proprio come nel 1937, quando il regime vietò il matrimonio degli italiani con i «sudditi delle colonie africane»); e il divieto per le donne straniere, in condizioni di irregolarità amministrativa, di riconoscere all’anagrafe i figli da loro stesse generati. Che Paese è quello in cui ciò accade (il disconoscimento così brutale della dignità dell’uomo) senza un moto di indignazione popolare? In cui non la sinistra e le sue organizzazioni politiche e sociali, ma la società nel suo complesso non è in grado di organizzare una reazione di massa che impedisca al presidente della Repubblica di compiere, se apponesse nei prossimi giorni la sua firma in calce alla legge, tecnicamente un colpo di Stato (giacché la legge è incostituzionale, e la firma del capo dello Stato in approvazione ad una legge incostituzionale – al di là del contenuto specifico della norma, che oggi vìola il nucleo di diritti fondamentali ma che domani potrebbe violare la stessa forma repubblicana dello Stato – farebbe venire meno il principio secondo il quale egli ha l’obbligo di opporre il suo veto a leggi costituzionalmente inopportune)? E’ un Paese assuefatto, come lo era alla vigilia della seconda guerra mondiale; e in cui il consenso popolare (elemento nodale, come ricordava Dino Greco su queste colonne) pazientemente conquistato dalle destre e dai poteri padronali legittima le peggiori aberrazioni del diritto. E’ un Paese che si riscopre fascista nel cuore profondo delle relazioni sociali, laddove l’istinto gerarchico che ne ha contraddistinto la storia (dalle imprese coloniali in Eritrea alla legislazione sui Rom) emerge in maniera prorompente, fornendo al razzismo – trasformato da «fatto di realtà» a cardine dell’ordine giuridico – un’ulteriore, decisiva, sanzione formale. Oggi non firmare questo nuovo Manifesto della razza significa impegnarsi in prima persona, assumere la lotta contro il “pacchetto sicurezza” come priorità assoluta. Propongo che il partito e l’organizzazione giovanile si facciano protagonisti di un coordinamento di tutte le forze antirazziste che dia vita immediatamente ad una campagna di massa contro questa barbarie, informando innanzitutto i migranti, nella loro lingua, del contenuto della legge. Ma è nei territori, laddove si può allacciare concretamente un legame con le diverse comunità di immigrati, che va dispiegata tutta la nostra capacità di mobilitazione. Avanzo quattro semplici proposte, consapevole della loro drammatica parzialità. La prima: utilizziamo alcuni dei nostri circoli, soprattutto nelle grandi città, come sportelli di consulenza e di aiuto concreto per i migranti, mettendo a disposizione le risorse che abbiamo e lavorando di concerto con gli uffici stranieri della Cgil. La seconda: organizziamo gruppi di vigilanza democratica nei quartieri densamente popolati da migranti per denunciare immediatamente gli episodi di violenza razzista, che crescono esponenzialmente a dispetto dei mezzi di informazione (che sovente li ignorano, al contrario che in tutti gli altri casi di violenza). E ancora: promuoviamo campagne di pressione su tutte le istituzioni locali, affinché si attivino sia per prendere le distanze pubblicamente dalla legislazione nazionale sia per promuovere direttamente azioni di resistenza (gli stessi sportelli di assistenza) e di controtendenza (agevolazioni per famiglie immigrate senza lavoro, l’inserimento del diritto di voto per i migranti negli Statuti comunali, provinciali e regionali). Infine, utilizziamo tutti gli spazi democratici della cultura e della formazione, a partire dalle Università, per rendere permanente la mobilitazione delle coscienze e dell’intelligenza critica del nostro Paese, l’unico argine (insieme forse alla Corte costituzionale, per le prerogative che le sono assegnate) al propagandarsi del virus razzista. In una società in cui è negata alla radice l’eguaglianza giuridica degli individui non c’è il minimo spazio politico per alcun tipo di rivendicazioni ulteriori sul piano economico e sociale, né per gli autoctoni né per i migranti, che dovremmo tutti iniziare a considerare parte decisiva della classe lavoratrice del nostro Paese. Oggi ad essere in pericolo, a monte dei posti di lavoro, della sicurezza e della stabilità salariale, è la civiltà. Anche per questo è tempo di calibrare l’obiettivo e cominciare a lavorare.


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