di Tonino bucci
Prima di combatterle nei cieli e in terra, le guerre si preparano con la comunicazione. La guerra in Libia – come tutti i conflitti del XXI secolo – ci dimostrano che il controllo della narrativa è un potere fondamentale. «A determinare le scelte dei decisori – o presunti tali – nelle nostre democrazie ipersensibili ai media – ha scritto qualche giorno fa su Repubblica il direttore della rivista Limes, Lucio Caracciolo – sono sempre meno concezioni strategiche o anche solo considerazioni di medio periodo, ma reazioni immediate a notizie inverificabili o volutamente inverificate». La disinformazione è solo uno dei temi trattati nell’ultimo Quaderno speciale di Limes in edicola, dedicato alla Libia.
A un mese dall’inizio delle operazioni militari possiamo vederci più chiaro. L’informazione ha distorto la realtà?
Gli eventi sono frutto dell’incrocio di tre fattori: il tentativo interno di un colpo di stato che stava maturando, il tentativo francese di cavalcarlo – forse anche inglese – e l’esplosione di una rivolta a Bengasi – una delle tante rivolte di Bengasi. Siccome nessuno di questi tre processi isolatamente – e neppure in combinazione tra loro – era in grado di far fuori Gheddafi, ci siamo trovati in una situazione di stallo. L’intervento internazionale ha trovato una fonte di legittimazione nell’emergenza umanitaria.
Nei primi giorni abbiamo ascoltato notizie di fosse comuni e di diecimila morti. Un’invenzione?
Senza dubbio. L’emergenza umanitaria non c’era e, se c’era, non era delle dimensioni che ci sono state raccontate. La rappresentazione della realtà in quei termini è stata un’operazione voluta da Al Jazeera e da altri media che hanno ripreso acriticamente quello che ci raccontavano le tv satellitari arabe. Anche gli americani ci sono cascati “naturalmente”. Ma non appena hanno capito che Gheddafi non cadeva, altrettanto naturalmente se ne sono lavati le mani e hanno affibbiato la patata bollente a noi europei. Diciamo che la rappresentazione fornita dai media è stata determinante nel convincere gli americani a dare una copertura all’operazione militare. Francesi e inglesi, da soli, non avrebbero potuto far passare una risoluzione Onu che legittimasse un loro intervento. Senza il via libera degli americani non si sarebbe mosso nessuno. In questo momento però il carico dell’operazione è tutto sulle spalle di Francia e Gran Bretagna.
Eppure c’è chi sostiene un declino degli Usa. Quella libica è la prima crisi mondiale gestita in ambito G20. Non trova?
Però parliamo di un paese come la Libia che non è strategico per gli Stati Uniti. In secondo luogo, gli Usa non hanno più un soldo in cassa. In terzo luogo sono impegnati in altre guerre dispendiose, sotto tutti i profili. In quarto luogo, se dovesse succedere qualcosa di serio in paesi strategici – per esempio, nella regione del Golfo – gli americani si troverebbero in grande difficoltà se, al contempo, dovessero essere impegnati anche in Libia. Tutti questi motivi messi assieme hanno indotto il Pentagono e la Cia a sconsigliare l’intervento in Libia. Poi, dopo la pressione mediatico-umanitaria, gli Usa si sono limitati al minimo indispensabile.
La stampa italiana ha usato fin dall’inizio la categoria di “primavera araba”, probabilmente più per comodità propria che per profondità di analisi. Ma cosa c’entra, per esempio, la vicenda libica con l’Egitto, nel quale, per citare un solo elemento, la società civile è molto più strutturata?
Non c’entrano assolutamente nulla tra loro. Forse c’è stato un effetto d’imitazione, ma nulla di più. Probabilmente è stata più una proiezione nostra. Se è vero quel che abbiamo scritto in questo numero di Limes, non è che la rivolta di Libia sia scoppiata in conseguenza delle rivolte di Tunisia ed Egitto. Non solo, al di là delle reali intenzioni di chi combatte Gheddafi, la situazione della Libia è diversa da quella dell’Egitto.
In Egitto ci sono dei partiti, c’è una stampa. In Libia a malapena conosciamo la mappa dei ribelli, o no?
Nessuno sa esattamente chi siano questi ribelli. Il famoso comitato di transizione è un organismo oscuro, diviso al suo interno tra i vari comandanti politici e militari. Andare a fare le analisi del sangue è un po’ complicato. Non dimentichiamo poi che la Libia è un territorio nel quale lo Stato era Gheddafi. Era lui che gestiva gli equilibri attraverso la manipolazione degli interessi dei clan e delle tribù, usando la rendita che derivava dal petrolio per costruire un sistema di consenso.
A proposito di petrolio, qual è il ruolo delle grandi compagnie occidentali in questa guerra? Gli attriti tra Francia e Italia non sono riconducibili a uno scontro di politiche nazionali per l’accaparramento di fonti energetiche?
No, questo non credo sia vero. Per capirci, questa non è la guerra di Total contro Eni. Le motivazioni di fondo sono politiche, poi, certo, la vicenda avrà conseguenze anche energetiche. Non la radice, ma il ramo può avere a che fare con la questione dell’energia. A seconda di chi controllerà i terminali e le produzioni di greggio i rapporti di forza in Libia cambieranno. Quando ci sarà un nuovo equilibrio in Libia – si spera presto – il nuovo potere o, forse, i nuovi poteri se si va a una spartizione terranno conto di quelli che sono i rapporti internazionali di forza.
Però l’Eni un ruolo nella politica italiana l’ha avuto, no?
Tutte le componenti italiane presenti in Libia avrebbero preferito il mantenimento dello status quo e andare avanti come prima. C’erano in ballo alcuni miliardi di euro che in base al Trattato di amicizia il nostro governo avrebbe assegnato con una partita di giro alle imprese italiane che lavoravano in Libia. Né l’Eni per ragioni strutturali e storiche, né Impregilo e altre imprese di costruzione, né nessun altro aveva interesse a che si colpisse Gheddafi.
Si è parlato molto di rischi di infiltrazione di Al Qaeda o di radicalizzazione islamica. Frutto soltanto della propaganda di Gheddafi o c’è qualcosa di vero?
Ci sono dei dati noti, mi riferisco ai documenti di Al Qaeda sequestrati nel 2007 dagli americani al confine Siria-Iraq, in cui si dava conto della provenienza dei combattenti. In termini relativi, rispetto alla popolazione complessiva del paese di origine, i combattenti provenienti da Bengasi e da Derna, nell’est libico, erano i più numerosi nel mondo arabo. Sappiamo che c’è una radice libica del fondamentalismo islamico. Non c’è dubbio però che anche qui la propaganda abbia giocato molto, in questo caso, quella di Gheddafi. Immaginare la rivolta libica come una rivolta di Al Qaeda mi pare fuori luogo. Questo però non vuol dire che in una situazione di prolungamento della crisi possano venire fuori elementi di fondamentalismo.
su Liberazione (27/04/2011)