da Il Manifesto 28 ottobre 2009
di Alberto Asor Rosa
Non c’è alcun dubbio per me che il 25 ottobre sia stata una giornata positiva, molto positiva per la democrazia italiana, oltre che ovviamente per il Pd. Preciso subito che io non sono andato a votare alle primarie di questo partito: non sono un elettore del Pd (quantunque mi riesca difficile dire di cosa io oggi sia un elettore); ritenevo più corretto che su di un argomento del genere si esprimessero iscritti, simpatizzanti ed elettori del Pd. Ma questo non m’impedisce di vedere – anzi – quanto le cose in generale siano andate bene. In un clima di confusione e di sfacelo, che di recente ha toccato anche le fila del centro-sinistra, il fatto che più di tre milioni di cittadini abbiano risposto ad un appello di questa natura significa che un popolo c’è, c’è ancora e offre la propria disponibilità ad esserci ancora di più e ancora meglio.
In secondo luogo, io penso che sarebbe arbitrario in questo caso staccare il risultato popolare da quello del partito che ne ha beneficiato: insomma, il risultato popolare non ci sarebbe stato se non ci fosse stato il partito, l’unico partito di opposizione effettivamente strutturato a livello nazionale in questo paese (tutto il resto, dalla galassia della sinistra extraparlamentare all’Idv o esiste a stente macchie di leopardo oppure si rifugia nelle più comode vesti del partito d’opinione). Anche questo non è poco: la tabe berlusconiana non ha distrutto questo antico tessuto, meno male che ha retto.
Ho scritto: «antico tessuto», e forse non è stato a caso. Io non mi vergognerei di dire che ha vinto il candidato che era o si presentava meno «nuovista». Certe volte bisogna avere il coraggio di fare un passo indietro per farne due avanti. «Nuovismo» – sciagurato «nuovismo» – era stato teorizzare e praticare l’autosufficienza del Pd: i risultati ne sono sotto gli occhi di tutti. Ora si torna a parlare di alleanze: bene, anche se, per battere Berlusconi, il Pd dovrà rimettere insieme tutto quello che ha alla sua destra (Udc) e tutto quello che ha alla sua sinistra (Idv, galassia degli extraparlamentari): non sarà facile, ma auguri.
È da qui però che comincia, per questo Pd indubbiamente rafforzato, un percorso irto di difficoltà, il cui senso complessivo potrebbe esser così riassunto: come può un partito che ha fatto un passo indietro farne d’ora in poi due, e molti più, avanti? Mi permetterei di segnalare alcune questioni, nella forma schematica che meglio si adatta al cri-cri del grillo parlante:
1) Esiste innanzi tutto un problema di democrazia interna di partito, ovvero, con linguaggio leggermente più audace, di partecipazione popolare effettiva. Il Pd è stato in questi anni un partito a tendenze leaderistiche piuttosto accentuate (anche, il che è più ridicolo, a livello locale), e cioè goffamente impegnato a ricalcare il modello berlusconiano, che ovviamente da questo punto di vista è imbattibile. Le primarie – con tutti gli aspetti positivi in precedenza richiamati – restano tuttavia l’espressione di una democrazia tendenzialmente plebiscitaria. Far funzionare al meglio gli organismi elettivi di partito è molto più difficile, ma più stabile, più funzionante, più garantistico e più efficace.
2) Leggo sui giornali che il mio amico Francesco Rutelli lamenta che il risultato delle primarie fa del Pd un partito troppo di sinistra. Io starei ai fatti, limitandomi a constatare che il Pd è stato finora un partito eccezionalmente moderato. Ora, sarà pure un bene che il neo-segretario esordisca affrontando i temi dell’economia (quotidiani del 26-27 ottobre). Bisognerà pure, tuttavia, che ci si dica presto se il «lavoro» – in modo particolare il lavoro dipendente e in modo ancor più particolare i lavoro operaio – rappresenta un protagonista autonomo, una, come si diceva una volta, «variabile indipendente» per il nuovo Pd, oppure no. Da questo dipende molto se esso sarà in grado, oppure no, di battere la Lega in casa propria. E, più in generale, se esso potrà disporre di una base sociale forte all’interno del sistema produttivo del paese, il che mi appare essenziale per qualsiasi politica economica in grado di funzionare. Ossia, in buona sostanza, se continuerà ad essere un partito molto, molto moderato, oppure un poco, ma tangibilmente e visibilmente, più progressista.
3) La tutela dell’ambiente e la difesa del territorio costituiscono ostentatamente il tallone d’Achille dell’attuale Pd. Il nuovo Pd, se ce ne sarà uno, dovrà dedicare un’attenzione particolare a queste tematiche, rovesciando molto delle posizioni attualmente dominanti. Dove il Pd è stato al governo in questi anni, a livello regionale e comunale (tanto per fare esempi lampanti: Toscana e Firenze), non s’è vista differenza alcuna rispetto alle politiche di sfruttamento selvaggio del territorio e dell’urbanistica più cementizia dominanti nelle regioni e nei comuni governati dal centro-destra. Coloro che in passato, dalle file ambientaliste, avevano criticato quegli orientamenti sono stati tacciati di arroganza, estremismo e, peggio, nullismo. Ora i loro accusatori, uomini molto, molto interni al Pd (notizie del 27 ottobre) vanno in galera. Quanto alla politica delle grandi infrastrutture, promossa come cosa propria – e si capisce – dai «berluscones» (ponti, porti, autostrade, Tav), necessita di una risposta critica totalmente alternativa, che pure è possibile anche fattualmente. Per favore, risposte chiare, magari moderate, ma chiare.
4) Non so se un partito vecchio, che voglia farsi nuovo, abbia bisogno di una propria cultura oppure no. Quel che so, è che il Pd non ne ha alcuna e che in questi anni non ha neanche provato ad averne, lasciando spazio alle Fondazioni private dei suoi dirigenti (che sono, mette conto di precisarlo) tutt’altra cosa. Possibile che non ci sia alle spalle di quel che questo partito pensa e decide neanche uno straccio di elaborazione intellettuale? Esempio minimo: le tre questioni precedenti (democrazia, lavoro, ambiente) non potrebbero neanche esser poste, se uno non avesse nella testa alcune coordinate culturali basilari, le quali poi altro non sono che i criteri con i quali si legge il mondo nell’atto stesso in cui sta cambiando, come sempre dunque nella prospettiva che va dal passato al presente verso il futuro. La cultura, come si sa, è un argine all’improvvisazione e all’arbitrio dei politici. Ma può nascere e svilupparsi in politica solo se i politici fanno mostra di averne bisogno e loro stessi la praticano. E’ precisamente ciò che finora è del tutto mancato.
Insomma, il buon risultato ha fatto crescere le pretese. Ma non è così che funziona la democrazia, quando funziona?