pubblicato dal Manifesto il 13 settembre 2009
di Luigi Ferrajoli
Fuori LEGGE
Pubblichiamo la relazione del filosofo all’incontro «La frontiera dei diritti. Il diritto alla frontiera» organizzato a Lampedusa da Magistratura democratica, dal Medel e dal Movimento per la Giustizia
È con un senso di sgomento e di mortificazione civile che siamo oggi qui a Lampedusa per discutere della vergognosa politica italiana in materia di immigrazione: delle scandalose leggi razziste e incostituzionali varate dall’attuale governo contro gli immigrati, fino alla criminalizzazione della stessa condizione di immigrato irregolare; dei respingimenti di massa illegittimi, in violazione del diritto d’asilo, di migliaia di disperati che fuggono dalla fame, o dalle persecuzioni o dalle guerre; delle violazioni dei diritti e della dignità della persona negli attuali centri di espulsione, e più ancora nei lager libici nei quali gli immigrati respinti vengono destinati; delle centinaia di morti, infine – fino alla tragedia dei 73 eritrei lasciati annegare in mare lo scorso agosto, dopo 21 giorni alla deriva – vittime della disumanità del nostro governo, immemore della lunga tradizione di emigrazione del nostro paese
La guerra ai migranti
Ci troviamo di fronte ad un cumulo di illegalità istituzionali, che hanno provocato critiche e proteste da parte dell’Onu, dell’Unione Europea e della Chiesa cattolica e che deturpano i connotati essenziali della nostra democrazia. (…) Credo sia opportuno, in via preliminare, misurarne la contraddizione profonda con i principi più elementari della tradizione liberale. Entro questa tradizione, il diritto di emigrare è il più antico dei diritti naturali, essendo stato proclamato alle origini della civiltà giuridica moderna. Ben prima della teorizzazione hobbesiana del diritto alla vita e di quella lockiana dei diritti di libertà, lo ius migrandi fu infatti configurato dal teologo spagnolo Francisco de Vitoria, nelle sue Relectiones de Indis svolte a Salamanca nel 1539, come un diritto universale e insieme come il fondamento del nascente diritto internazionale moderno.
Di fatto la sua proclamazione era chiaramente finalizzata alla legittimazione della conquista spagnola del Nuovo mondo: anche con la guerra, ove all’esercizio di quel diritto fosse stata opposta illegittima resistenza. Tuttavia – benché asimmetrico, non essendo certo esercitabile dalle popolazioni dei «nuovi» mondi, ma solo dagli europei che lo invocarono a sostegno delle loro conquiste e colonizzazioni – lo ius migrandi rimase da allora un principio fondamentale del diritto internazionale consuetudinario.
In nome della proprietà privata
John Locke lo teorizzò come essenziale al nesso proprietà, lavoro, sopravvivenza sul quale fondò la legittimità del capitalismo: «la stessa norma della proprietà», in forza della quale ciascuno è proprietario dei frutti del proprio lavoro, egli scrisse, «può sempre valere nel mondo senza pregiudicare nessuno, poiché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti» (…). Kant, a sua volta, enunciò ancor più esplicitamente non solo il «diritto di emigrare», ma anche il diritto di immigrare, che formulò come «terzo articolo definitivo per la pace perpetua». Infine il diritto di emigrare fu consacrato nell’art.13 della Dichiarazione universale dei diritti nel 1948 e in quasi tutte le odierne costituzioni, inclusa quella italiana (…).
Ho ricordato queste origini dello ius migrandi perché la loro memoria dovrebbe quanto meno generare una cattiva coscienza in ordine all’illegittimità morale e politica, ancor prima che giuridica, della legislazione contro gli immigrati. Quell’asimmetria, in forza della quale quel diritto fu utilizzato dai soli occidentali a danno delle popolazioni dei nuovi mondi, si è oggi rovesciata. Dopo cinque secoli di colonizzazioni e rapine non sono più gli europei ad emigrare nei paesi poveri del mondo, ma sono al contrario le masse affamate di questi stessi paesi che premono alle nostre frontiere. E con il rovesciamento dell’asimmetria si è prodotto anche un rovesciamento del diritto. Oggi che l’esercizio del diritto di emigrare è divenuto possibile per tutti ed è per di più la sola alternativa di vita per milioni di esseri umani, non solo se ne è dimenticato l’origine storica e il fondamento giuridico nella tradizione occidentale, ma lo si reprime con la stessa feroce durezza con cui lo si è brandito alle origini della civiltà moderna a scopo di conquista e colonizzazione. Nel momento in cui si è trattato di prenderne sul serio il carattere «universale», quel diritto è infatti svanito, capovolgendosi nel suo contrario: tramutandosi in reato.
È questa l’enorme novità dell’attuale legislazione italiana rispetto alle stesse leggi anti-immigrazione del passato, come la Bossi-Fini o le varie leggi contro gli immigrati degli altri paesi europei: la criminalizzazione degli immigrati clandestini. (…)
Ma oggi la novità della criminalizzazione degli immigrati compromette radicalmente l’identità democratica del nostro paese. Giacché essa ha creato una nuova figura: quella della persona illegale, fuorilegge solo perché tale, non-persona perché priva di diritti e perciò esposta a qualunque tipo di vessazione; destinata dunque a generare un nuovo proletariato, discriminato giuridicamente e non più solo, come i vecchi immigrati, economicamente e socialmente.
Il salto di qualità consiste dunque nei connotati intrinsecamente razzisti della nuova legislazione: dapprima del decreto legge n.92/2008, convertito in legge il 24 luglio del 2008, che ha introdotto, per qualunque reato, l’aggravante della condizione di clandestino, l’aumento della pena fino a un terzo e il divieto di concedere le attenuanti generiche sulla sola base dell’assenza di precedenti penali; poi, soprattutto, della legge sulla sicurezza (…) È stato infine allungato da 2 a 6 mesi il tempo di permanenza dei clandestini nei centri di espulsione (Cie). Infine le norme apertamente razziste, di triste memoria nel nostro paese: il divieto dei matrimoni misti per l’immigrato irregolare, gli ostacoli alle rimesse di denaro alle famiglie; il divieto per quanti sono privi del permesso di soggiorno di iscrivere i figli all’anagrafe, con il conseguente pericolo che questi, non essendo riconosciuti, possano essere dati in adozione e sottratti alle loro madri, la cui sola alternativa sarà il parto clandestino e la clandestinità dei loro figli.(…)
Buttati a mare
La cosa più sconfortante è che queste leggi non sono bastate a soddisfare le pulsioni razziste presenti nell’attuale governo. Anch’esse, benché crudelmente discriminatorie, sono state violate dal nostro governo. È quanto è accaduto in questi mesi, a partire dallo scorso 6 maggio, con l’infamia dei respingimenti in mare, nel corso dei quali centinaia di persone sono state rigettate, a rischio della loro vita, nei campi libici o nei loro paesi di provenienza. Questi respingimenti sono illegali sotto più aspetti. Hanno violato, anzitutto, il diritto d’asilo stabilito dall’articolo 10 (comma 3) della Costituzione per «lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche», giacché le navi italiane con cui gli immigrati vengono riportati in Libia sono territorio italiano, siano esse in acque territoriali o in acque extraterritoriali. E lo hanno violato doppiamente, giacché questi disperati vengono respinti in quei veri lager che sono i campi libici, dove sono destinati a rimanere senza limiti di tempo e in violazione dei più elementari diritti umani. Hanno violato, in secondo luogo, la garanzia dell’habeas corpus stabilita dall’articolo 13 (3 comma) della Costituzione: questi respingimenti si sono infatti risolti in accompagnamenti coattivi, non sottoposti a nessuna convalida giudiziaria. (…) Infine sono state violate le convenzioni internazionali che l’Italia, nell’articolo 10 della Costituzione si è impegnata a rispettare: l’art.13 della Dichiarazione universale dei diritti umani sulla libertà di emigrare; l’art.14 della stessa Dichiarazione sul diritto d’asilo; l’art.4 del protocollo 4 della Convenzione europea dei diritti umani che vieta le espulsioni collettive.
Infine l’ultimo, dolente capitolo: quello dei «centri» che prima si chiamavano «di accoglienza» e che la nuova legge chiama «centri di identificazione e di espulsione», nei quali gli immigrati possono restare reclusi non più per 60 giorni, come secondo la vecchia legge, ma per sei mesi. Questi centri sono veri luoghi di detenzione: una detenzione, peraltro, ancor più grave e penosa di quella carceraria, dato che è sottratta a tutte le garanzie previste per i detenuti, a cominciare dal ruolo di controllo svolto dalla magistratura di sorveglianza.
Sono stati così creati dei centri, dei luoghi, dei campi di concentramento – chiamiamoli come vogliamo – in cui vengono recluse persone che non hanno fatto nulla di male, ma che vengono private di qualunque diritto e sottoposte a un trattamento punitivo senza neppure i diritti e le garanzie che accompagnano la stessa pena della reclusione. In questi centri la violazione dell’habeas corpus è totale.(…)
Queste norme e queste pratiche rivelano insomma un vero e proprio razzismo istituzionale. (…) Esse esprimono l’immagine dell’immigrato come «cosa», come non-persona, il cui solo valore è quello di mano d’opera a basso costo per lavori troppo faticosi, o pericolosi o umilianti: tutto, fuorché un essere umano, titolare di diritti al pari dei cittadini.
Categorie criminali
C’è un altro aspetto, ancor più grave, del razzismo istituzionale espresso da queste norme e dalla campagna sulla sicurezza a loro sostegno: il veleno razzista da esse iniettato nel senso comune. Queste norme e questa campagna non si limitano a riflettere il razzismo diffuso nella società, ma sono esse stesse norme razziste – le odierne «leggi razziali», è stato detto, a distanza di 70 anni da quelle di Mussolini – che quel razzismo valgono ad assecondare e a fomentare, stigmatizzando come pericolosi e potenziali delinquenti non già singoli individui sulla base dei reati commessi, ma intere categorie di persone sulla base della loro identità etnica. (…)
Questo razzismo istituzionale rischia di minare alle radici la nostra democrazia. Al tempo stesso, le politiche e le leggi che ne sono espressione possono solo aggravare e drammatizzare tutti i proble-mi che si illudo-no di risolvere. Mentre non saranno mai in grado di fermare l’immigrazione, avranno come effetto principale l’aumento esponenziale del numero dei clandestini e la loro emarginazione sociale inevitabilmente criminogena. E’ infatti evidente che, come già è accaduto per l’emigrazione italiana negli Stati Uniti negli anni venti e trenta del secolo scorso, la condizione di debolezza e di inferiorità degli immigrati finisce inevitabilmente per spingerli nell’illegalità, alla ricerca della solidarietà e della protezione di altri immigrati clandestini e di consegnarli, magari, al controllo delle mafie. Occorre al contrario essere consapevoli della complementarità e della convergenza tra sicurezza e integrazione sociale: una politica a garanzia della sicurezza non solo non esclude, ma implica la massima integrazione degli immigrati, attraverso il riconoscimento della loro dignità di persone e la garanzia di tutti i diritti della persona.