Egregio Sig.Sindaco,
in seguito alle sue affermazioni sulla chiusura del manicomio di Volterra e associandomi alla lettera di risposta del giornalista Giorgio Pecorini, desidero raccontarle la mia storia e quella della mia famiglia.
Sono la vedova del Dott. Pellicanò ultimo Direttore del manicomio di Volterra che ebbe l’ impegno di chiudere il manicomio cioè la fabbrica della città, con la “perdita” come dice lei, di numerosi posti di lavoro.
Con mio marito abbiamo vissuto quell’esperienza meravigliosa e al tempo stesso difficile e pesante che assieme all’orgoglio e alle soddisfazioni ci costò tante amarezze ed umiliazioni.
Lei oggi rivendica quei posti di lavoro e il numero e le modalità non sono veri; noi che abbiamo vissuto in prima persona quelle battaglie sappiamo che alcuni operatori si ribellarono alla chiusura anche se a mio avviso indegnamente per una città democratica come Volterra: fummo perseguitati da telefonate e lettere anonime fortemente offensive, fu perfino minacciata l’incolumità dei miei quattro figli e diffusa la notizia di una bomba nel giardino della nostra casa.
Ma devo anche aggiungere che la cittadinanza tutta si strinse attorno a noi e a tutti coloro che vedevano nell’applicazione della legge Basaglia un forte segno di democrazia, rispondendo con solidarietà e ferma condanna a quei comportamenti che la offendevano ed in cui non si riconoscevano.
Il Sindaco di allora Sen. Giustarini e tutto il Consiglio Comunale ci fecero giungere una lettera di solidarietà che ancora oggi conserva un altissimo valore non solo per me e la mia famiglia.
Poiché il manicomio non rappresentava solo posti di lavoro ma persone e persone recluse, le racconterò di alcune di loro e quanto per loro e per tutti gli altri sia stato non solo positivo ma necessario e giusto uscire da un’istituzione manicomiale che non faceva che peggiorare le loro condizioni e la loro sofferenza.
C’era una vecchietta che era ricoverata da ben cinquant’anni tanto da meritarsi il soprannome di “ sindachessa” dell’ospedale: la sua colpa per questa terribile e lunghissima pena era stata di aver incendiato un capanno per gli attrezzi dei contadini in preda alla rabbia per una delusione d’amore.
Aveva una pensione ed un giorno chiamò l’assistente sociale che la seguiva: desiderava comprarsi un loculo nel cimitero della città così almeno dopo morta sarebbe uscita dal manicomio.
Come saprà i malati poveri e senza famiglia venivano seppelliti nel cimitero di San Finocchi con una sola croce sopra e senza nome così da perdere definitivamente ogni traccia di dignità umana.
Mio marito si adoperò verso il Comune ed il Sindaco per ottenere un certo numero di appartamenti di edilizia popolare in modo da poter dimettere alcuni ricoverati soli ma autosufficienti e tranquilli.
Così la nostra sindachessa ebbe la sua libertà e la sua casetta.
C’era poi un reparto di donne sarde che parlavano solo il dialetto e non comunicavano con nessuno: erano definite per questo motivo mutaciche e depresse.
Un giorno capitò in ospedale una sarda che parlava l’italiano e le mutaciche finalmente parlarono.
Mio marito cercò fra queste malate chi aveva ancora dei familiari, li ritrovò e le fece tornare in aereo alle loro case.
Vorrei continuare ancora tanto ma mi basta sottolineare questi episodi per farle capire che la maggior parte dei malati del manicomio erano persone povere o scomode alla società.
Peggio dei carcerati, non avevano neanche il conforto di ricevere o spedire della posta: le lettere venivano controllate dalla direzione dell’ospedale ed invece di essere spedite venivano accluse alle cartelle cliniche per avvalorare le diagnosi.
I poveri malati disperati per non avere nessuna risposta si sentivano abbandonati e scrivevano a tutte le autorità possibili per chiedere aiuto dal Prefetto al Papa: un motivo in più per essere definiti matti…
Quando mio marito assunse la direzione fece recuperare queste lettere facendone pubblicare alcune in un libro “Corrispondenza Negata, epistolario della nave dei folli” che è oggi alla seconda edizione.
Questa e tante altre cose ha realizzato mio marito con suoi collaboratori lottando per realizzare la legge Basaglia, legge che tutto il mondo ci invidia perché prima che una conquista culturale è stata una conquista di civiltà.
Il superamento del manicomio di Volterra è stata una esperienza eccezionale di avanguardia unica nel suo genere tale da segnare una svolta culturale di cui non solo gli operatori sanitari ma tutta la città deve andare fiera.
Quando Basaglia venne a Volterra disse a mio marito che gli riconosceva maggiore difficoltà delle sue nella chiusura e riconversione del manicomio, perché stava smantellando l’unica fabbrica della città; l’assessore alla Sanità Regionale di allora disse che l’esperienza di Volterra era degna di passare alla storia proprio per la sua peculiarità e per la grande difficoltà di realizzarla.
Credo che anche gli infermieri “ribelli” di allora debbano sentirsi protagonisti ed orgogliosi della trasformazione ottenuta.
E’ comprensibile che perdere privilegi sia stato doloroso e difficoltoso ma la chiusura del manicomio non è stata una sciagura per Volterra.
La “fabbrica della follia”, sig. Sindaco, è stata invece un freno ed una limitazione per lo sviluppo economico e culturale di una città meravigliosa dalle tante risorse artigianali, artistiche e turistiche sopite e frenate dalla rendita comoda e sicura che il manicomio offriva.
Il superamento e la successiva riconversione del manicomio di Volterra è stata infine una conquista di civiltà sostenuta da un alto senso civico e morale che credo debba inorgoglire ogni uomo di qualsiasi ideologia politica.
La ringrazio della sua attenzione e la saluto cordialmente.
Firenze, 20 Settembre 2011
Concetta Cancelliere Pellicanò e famiglia
Una risposta a “Concetta Pellicanò ha scritto al Sindaco”
Rngrazie la Signora Pellicanò per la lettera di Civiltà e la lezione che ha dedicato al sindaco.Temo però che un somaro(mi perdoni il senso comune,i somari sono intelligentissimi)possa mai capire quelle sue Parole.Sentitamente,Fosco Maielli.