FUORI I PICCOLI CLANDESTINI


Accade, di rado, che il ministro della difesa Ehud Barak si ricordi di essere un laburista. Recuperata per qualche attimo la memoria politica, l’artefice nel 2009 dell’abbraccio fraterno tra il suo partito e la destra del premier Benyamin Netanyahu in funzione anti-palestinese, ora protesta per la decisione presa nei giorni scorsi dal governo del quale fa parte di cacciar via 400 bambini stranieri, molti dei quali con meno di cinque anni di età, figli di lavoratori immigrati non in regola. Altri 800, sulla base del provvedimento, verranno rispediti al mittente al compimento del 21esimo anno.
«I laburisti non cacciano via bambini» ha detto Barak spinto, forse, anche dalla condanna giunta dall’Unicef della decisione presa dal governo israeliano. «Si tratta di una gravissima violazione dell’Accordo sui Diritti dei Bambini che pure Israele ha sottoscritto», ha scritto nel suo comunicato l’agenzia dell’Onu incaricata di tutelare l’infanzia nel mondo, ricordando che lo Stato ebraico ha ratificato nel 1990 il trattato che garantisce anche ai bambini che vivono illegalmente all’estero di iscriversi a scuola. Qualcuno a mezza bocca sostiene che il sussulto laburista di Barak sarebbe in realtà una vendetta nei confronti dei ministri e suoi compagni di partito, Isaac Herzog e Avishai Braverman, che da un lato lo criticano per il suo appiattimento sulle posizioni di Netanyahu e dall’altro non si sono opposti alle decisioni del governo contro i bambini dei lavoratori irregolari. Sia come sia, la contestazione del laburista a intermittenza Ehud Barak giunge troppo tardi. Canta vittoria il  ministro dell’interno Eli Yishai che della guerra ai «clandestini» ha fatto la sua bandiera e che lo scorso anno ha creato la brigata Oz, incaricata di catturare e deportare tutti i clandestini entro il 2013, non esitando a usare le maniere forti nei confronti anche dei cittadini israeliani che daranno lavoro a chi si trova nel paese senza permesso. A nulla sono valse le proteste e le mobilitazioni organizzate dai centri per i diritti civili e dalle associazioni per la difesa dei migranti, come «Hotline for Migrant Workers» e «Israeli Child», alle quali si è aggiunta quella dell’organizzazione che raccoglie il maggior numero di sopravvissuti della Shoah (Cohsi): «Guardare gli occhi e le lacrime di questi bambini non può lasciare indifferenti i superstiti dell’Olocausto».
Fra i bambini destinati alla deportazione ci sono anche quelli nati in Israele che parlano come prima lingua l’ebraico e sono perfettamente inseriti tra i coetanei israeliani. Avranno la possibilità di continuare a risiedere nel paese solo quelli che hanno genitori con un permesso di lavoro, sono iscritti a scuola e vivono in Israele da almeno cinque anni.
«Tutti sentiamo e capiamo il cuore dei bambini. Ma d’altra parte bisogna assicurare il carattere ebraico dello Stato d’Israele», ha spiegato con il tono del bravo padre di famiglia Netanyahu. Di fatto il primo ministro ha accusato i migranti di mettere a rischio la «maggioranza ebraica», come i palestinesi dei Territori che sposano cittadini israeliani e, più in generale, i palestinesi con passaporto israeliano con la loro sostenuta crescita demografica. Il governo, sostiene Netanyahu avrebbe unito ai «principi umanitari» la «necessità di non incentivare l’afflusso di stranieri in Israele» (secondo l’Istituto centrale di statistica, il 46% dei 220mila lavoratori migranti nel paese, sarebbe entrato o rimasto illegalmente nel paese). Dietro queste frasi pronunciate con il «cuore in mano», la politica del premier israeliano è chiarissima e appiattita totalmente sulla linea del pugno di ferro di Eli Yishai. Netanyahu e suoi ministri, ad esempio, contano entro il 2013 di far completare i lavori di costruzione di una barriera elettronica lungo la frontiera con l’Egitto. Un muro che sorgerà su 110 dei 240 chilometri di confine. Nella parte rimanente verranno installati sensori e strumenti ottici, e rafforzati i pattugliamenti di polizia ed esercito. L’obiettivo, in questo caso, sarà quello di impedire l’ingresso
ai profughi di guerra e agli emigranti africani provenienti dal Sinai: 1.200 ogni mese secondo i dati in possesso del ministro per la sicurezza interna Yitzhak Aharonovic, che ha accusato i beduini egiziani e quelli israeliani del Neghev di aiutare i migranti.
La lotta agli ingressi clandestini dall’Egitto è il primo target del governo nonostante la stragrande maggioranza degli irregolari giunga nel paese attraverso il comodo aeroporto di Tel Aviv. Le motivazioni evidentemente sono anche politiche. E poco importa a Netanyahu – ma simile era l’atteggiamento del suo predecessore Ehud Olmert – il fatto che le guardie di frontiera egiziane uccidano ogni anno decine e decine di africani che tentano di passare il confine e di entrare in Israele. La carneficina si è aggravata dopo il 2007 quando Tel Aviv ha fatto la voce grossa con il Cairo affinché venissero fermati gli ingressi clandestini dal Sinai di sudanesi e altri africani. «Il numero delle vittime è molto più alto – dice Sigal Rosen, portavoce di «Hotline for Migrant Workers» – siamo certi che tanti altri migranti vengano colpiti a morte ma non riusciamo a saperlo perché le autorità egiziane non lo dicono. E non dimentichiamo che tanti altri vengono feriti o arrestati». Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati, da 2 a 3 milioni di cittadini sudanesi, in buona parte migranti, si trovano in Egitto e una parte di essi prova ad entrare in Israele. I migranti che riescono a passare il confine, una volta catturati nello Stato ebraico – tranne un numero limitato di quelli provenienti dal Darfur – vengono quasi subito rispediti in Egitto dove, dopo un processo sommario e una detenzione durissima, sono obbligati a tornare nei loro paesi d’origine, nella migliore delle ipotesi. A ben poco sono serviti gli appelli a fermare le uccisioni e a rispettare i diritti umani rivolti da «Amnesty International» e «Human rights watch» all’Egitto e a Israele. L’aumento dei morti alla frontiera tra i due paesi indica peraltro un mutamento delle rotte della migrazione africana, dopo che la strada verso  l’Europa si è fatta più difficile, anche a causa degli accordi tra Italia e Libia.

Michele Giorgio Il Manifesto 10-08-2010


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