Si annuncia, anzi è in corso, una crisi istituzionale di vasta portata. A che cosa sia e a che cosa essa chiami coloro che occupano posti di responsabilità nel nostro Paese, sono dedicate le considerazioni seguenti, esposte in quattro punti concatenati tra loro, dall´astratto al concreto.
1. Che cosa sono e a che cosa servono le istituzioni. Il genere umano ha scoperto le istituzioni per mettere a freno l´aggressività e l´istinto di sopraffazione che allignano – in uno più, in altro meno – in ognuno di noi, per diffondere fiducia e cooperazione, garantire un po´ di stabilità e sicurezza nelle relazioni umane e proteggere quel tanto di libertà che è compatibile con la vita associata. In una parola: per allontanare sempre di nuovo, ancora di un giorno, le “prove di forza” che accompagnano, come fantasmi che possono materializzarsi, i contatti tra gli esseri umani. Le istituzioni servono innanzitutto a questo: a neutralizzare i nostri istinti distruttivi e a civilizzarci. Poiché nel fondo siamo animali selvatici, possiamo anche dire: servono ad addomesticarci, incanalando e indirizzando le nostre energie in strutture, procedure, garanzie e controlli, così trasformandole, da distruttive, in costruttive di opere durature.
Non sembri eccessivo che, per parlare delle opere e dei giorni del nostro Paese in questo momento, si proceda così da lontano e da fondo, cioè da questa piccola sintesi del celebre scritto di Sigmund Freud sul “disagio della civiltà” (1929). È una messa in guardia a proposito di ciò che accade quando le istituzioni s´indeboliscono o scompaiono, inghiottite dall´ego di coloro che le impersonano e le usano per i loro propri interessi. Oppure – ed è lo stesso – è un ammonimento circa i pericoli di quando si diffonde l´idea che esse siano impacci, o abbiano tradito la loro funzione e siano diventate semplicemente coperture della lotta politica. In breve, si tratta dello scatenamento delle energie peggiori, che le istituzioni e il “senso delle istituzioni” non riescono a controllare. Questo è esattamente il nostro rischio, la china su cui siamo messi a causa di ciò che, con un´espressione abusata di cui non si coglie più la drammaticità, chiamiamo “delegittimazione”. Senza istituzioni, tutto diventa possibile. La “prova di forza” pre-politica, cioè fuori delle regole che ci siamo dati per “istituzionalizzare” il fisiologico conflitto politico, è alle porte.
2. Conflitto pre-politico. Guardiamo quello che accade. Lasciamo da parte i troppi che, come sempre accade, aspettano senza scoprirsi di capire come vanno le cose per schierarsi dalla “parte giusta”. Accanto ai molti indifferenti, presi dell´assillo d´altri problemi, coloro che si sentono parti in causa sono divisi da una frattura che non possono o non vogliono colmare. Da una parte, c´è chi giurerebbe sulla convinzione che è in corso una congiura contro il presidente del Consiglio e la sua maggioranza, condotta con metodi criminosi da oligarchie irresponsabili e magistrature corrotte politicamente, per un fine antidemocratico: contraddire il risultato di libere elezioni e mettere nel nulla la volontà di milioni di elettori. Sul fronte opposto, si giurerebbe sulla convinzione che, invece, il metodo criminoso è quello di un presidente del Consiglio che, per evitare di rispondere in giudizio di accuse penali assai gravi e infamanti, vuol porsi al di sopra della Costituzione e della legge, cambiandole a suo uso e consumo. Così, due accuse si fronteggiano: di attentato alla democrazia, da una parte; di attentato allo stato di diritto, dall´altra. Questa spaccatura è pre-politica. Non riguarda il come agire dentro le regole della politica che sono date dalla Costituzione, ma addirittura se starci dentro, o uscirne fuori. Vola, infatti, nei due sensi, l´accusa di tentare una forzatura. Qualcuno parla di “golpe”, senza rendersi conto di ciò che dice o forse rendendosene ben conto. Quando questo veleno entra in circolo, tutto – atti e parole che, nella normalità, sarebbero inimmaginabili o apparirebbero disgustose intimidazioni e prepotenze – diventa lecito, anche a fini preventivi.
Gli storici diranno di chi è la responsabilità della stasis, del punto morto al quale siamo arrivati. Ma noi ora vi siamo dentro e non possiamo consolarci pensando, ciascuno sulle proprie posizioni, che la storia ci darà ragione. Abbiamo il dovere di districarci nella difficoltà, per noi e i nostri figli, ai quali vorremmo consegnare un Paese pacifico e civile. Non serve a nulla, a questo punto, la ricerca della responsabilità originaria. Serve solo ad attizzare il conflitto. Non serve a nulla lo scambio di accuse tra due fronti che sembrano non ascoltarsi più. Anzi, serve a scavare ancora il fosso e a dare spazio all´avventura. Nessuno ha da rinunciare alle proprie idee, al giudizio su sé e su gli altri. Ma ora si tratta di prendere atto che la spaccatura esiste come “dato”, come “cosa” che minaccia le istituzioni e, con esse, la convivenza ch´esse devono assicurare.
3. “Delegittimazione democratica” delle istituzioni. La minaccia alla convivenza va di pari passo con l´indebolimento delle istituzioni, con la loro “delegittimazione”. È una storia che viene da lontano, che si ripete ogni volta, con l´affermarsi nella pratica e nel senso comune di un´idea di politica come immedesimazione di un capo nel suo popolo (”voglio essere uno come voi”) e di un popolo nel suo capo (”vogliamo essere come te”). Quest´immedesimazione ha assunto nella storia molte forme e molti nomi: democrazia plebiscitaria, demagogia, cesarismo, bonapartismo, peronismo, ecc. Altre forme e altri nomi assume oggi e assumerà in futuro, in conseguenza dei mezzi tecnici di quell´immedesimazione. In ogni caso, però, chi governa immedesimandosi nel popolo sale sul popolo e da lì guarda tutto dall´alto in basso, non concependo che possano esistere limiti e controlli. In nome di che, del resto? Di qualche giudice o giurista parruccone che non rappresenta che se stesso? La politica come immedesimazione o “identitaria” non ha bisogno d´istituzioni; le sono d´impaccio, anzi nemiche. Esse non possono che raffreddare un rapporto che si vuole invece caldo, tra capo e corpo, leader e seguaci. Nascono movimenti, simboli, inni, motti e frasi fatte, eventi e opere, ricorrenze, spettacoli, esempi, che celebrano e rafforzano quel rapporto e quella vicinanza, facendo appello indifferentemente, secondo che occorra, a nobili slanci altruistici o gretti sentimenti egoistici; ora adulando supposte virtù patriottiche, ora stuzzicando nascosti impulsi volgari. Si tratta di rappresentare il “paese reale” per impiantarvi una cosa che viene chiamata democrazia, anzi “vera democrazia”, in contrapposizione a quella “falsa”, “formale”, “vuota”, cioè quella mediata dalle istituzioni.
Noi assistiamo a questo processo. In nome della “vera democrazia” (posso fare quello che voglio perché ho il popolo dalla mia parte: vero a falso che sia), le istituzioni che non si adeguano sono indicate come nemiche. Non s´immagina neppure che possano fare onestamente il loro dovere che non è di tenere bordone a questo o quello ma, per esempio, di applicare la legge e di difendere la Costituzione oppure, per le istituzioni dell´informazione, semplicemente di pubblicare notizie. Devono essere necessariamente alleate del nemico. Se il potere è “di destra”, le si accuserà d´essere “di sinistra”. Se mai il potere fosse di sinistra, la stessa concezione della democrazia le farebbe accusare d´essere “di destra”. Ma le istituzioni della democrazia pur esistono e non è pensabile di eliminarle, a favore di una demagogia pura e semplice. Bisogna pur salvare le forme, anche per non essere banditi dal consorzio delle nazioni civili. Allora, via alle intimidazioni o – ed è lo stesso – alle seduzioni e, se non basta, via alle riforme per ridurre l´autonomia e l´indipendenza delle istituzioni non allineate. Così, si cambia regime dall´interno, lasciando l´involucro ma svuotato della sostanza. Così è per il governo, da rendere obbediente al “primus inter pares”, per il Parlamento, da ridurre a esecutore passivo del governo; del presidente della Repubblica, per l´intanto da rendere inquilino remissivo, perché non eletto dal popolo (una coabitazione impari, in attesa del presidenzialismo); della Corte costituzionale e della magistratura, da riformare per toglierle dalla sfera del diritto e spostarle in quella della (subordinazione) politica.
4. Tra l´incudine e il martello. La costituzione, da luogo della pacificazione, è così diventata terreno di scontro, lo scontro, per definizione, più distruttivo che possa immaginarsi. Chi assiste con sgomento al volgere degli eventi e ai segni premonitori ch´essi contengono resta sorpreso nel non veder sorgere una forza che, mettendo momentaneamente da parte le legittime diversità di posizione sui tanti e pur urgenti problemi del Paese, non si ponga responsabilmente, come compito prioritario e condizionante tutto il resto, quello di uscire dalla morsa che si sta chiudendo. In quelli che potrebbero, sembra mancare la consapevolezza o abbondare l´indifferenza. Occorre ben altro che la rituale “solidarietà” alle persone che ricoprono funzioni messe sotto tiro. Non basta l´invito al rispetto del galateo. Scadenze importanti incombono. Nel 2011 dovrebbe celebrarsi l´unità nazionale, cioè le istituzioni dell´unità. Che cosa troveremo, di questo passo, quando ci arriveremo?
Quando due fazioni si affrontano con rischio generale, per coloro che avvertono la propria responsabilità autenticamente politica quello è il tempo di mettere provvisoriamente da parte ciò su cui ordinariamente sarebbero portati a dividersi, e di operare insieme nell´interesse superiore alla pace. La nostra è una repubblica parlamentare. Non è, almeno per ora, un regime d´investitura popolare d´un sol uomo. Per quanto si sostenga il contrario, scambiando il desiderio per un diritto acquisito, sono le forze politiche rappresentate in Parlamento a disporre legittimamente del potere di coalizione, per fare e disfare governi, secondo necessità. Un potere al quale, in un momento come questo, corrisponde una grande responsabilità.
La Repubblica 15.10.09